Gli addii non sono mai semplici. Hanno il peso delle pietre e la leggerezza dell’aria, perché sono allo stesso tempo chiusura e apertura, morte e nascita. Salutare qualcuno, una fase, un luogo, significa misurarsi con il tempo: ciò che è stato non ritorna, ciò che deve venire ancora non si mostra. Restiamo in quell’istante sospeso, tra due rive, con la corrente che ci trascina via.
La difficoltà non è nell’addio in sé, ma nello sguardo che gli diamo. Lo viviamo come una sconfitta, come se lasciare fosse segno di fallimento. In realtà, salutare non è perdere, è riconoscere che qualcosa ha compiuto il suo ciclo. Come un frutto che matura e poi cade, non per caso, ma perché la vita gli ha chiesto di lasciare spazio al seme.
Ogni addio è un atto iniziatico. Ci mette davanti al vuoto, ci obbliga a lasciar cadere ciò che tratteniamo. Ci dice: “Non puoi portare tutto con te. Decidi chi sei adesso.” In questo senso, l’addio non ci toglie, ci scolpisce. Elimina l’eccesso, riduce l’illusione, affina l’essenziale.
Persone, luoghi, fasi della vita… ognuno è un paesaggio dentro di noi. Quando arriva il momento di salutarli, non spariscono davvero: diventano parte della nostra geografia interiore. Portiamo con noi le montagne che abbiamo scalato, le strade che ci hanno visto crescere, i volti che hanno camminato accanto a noi. Non li perdiamo: li trasformiamo in memoria viva, in forza sotterranea.
Eppure, l’addio porta dolore. È una ferita reale, non solo simbolica. Ci troviamo disorientati, privati di ciò che ci dava appoggio. Secondo il dott. Raffaele Morelli, la strada non è reprimere o fuggire dal dolore, ma abitarlo. Lasciarlo scorrere, perché proprio in quel vuoto l’anima trova il modo di trasformarsi. Non serve correre a riempire la mancanza con distrazioni o sostituti: il dolore va ascoltato, come un maestro che ci conduce altrove. Accettarlo significa permettergli di trasmutarsi, come una ferita che, lentamente, si cicatrizza da sola se non la si continua a graffiare.
C’è un paradosso sottile: l’addio non è mai solo fine, ma condizione necessaria per un nuovo incontro. Finché non lasciamo andare, non possiamo davvero accogliere. Finché restiamo legati a ciò che non è più, il presente non trova posto.
E allora forse gli addii vanno imparati come un’arte: salutare con gratitudine invece che con rimpianto, guardare al passato con rispetto senza restarne prigionieri, riconoscere che l’anima non retrocede, ma continuamente si rinnova.
Hillman direbbe che gli addii non vanno “superati”, ma onorati. Perché lì si gioca una parte del nostro destino: nella capacità di stare in quel vuoto senza scappare, nel coraggio di sentire la mancanza senza volerla riempire subito.
Non c’è sconfitta nell’addio. C’è la dignità del vivere. Ogni volta che diciamo addio, in realtà diciamo sì: a noi stessi, al tempo, al mistero che ancora non conosciamo. E dietro quel dolore che sembra chiudere il cuore, si apre sempre la possibilità di un nuovo inizio.

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