La parola “solitudine” fa spesso paura. La associamo a vuoti, silenzi interminabili, malinconie in bianco e nero. Ma in realtà la solitudine, se la guardiamo da un altro punto di vista, è un nutrimento prezioso. È come l’acqua per le radici: invisibile agli occhi, ma fondamentale per crescere forti.Stare soli non significa necessariamente sentirsi soli. Anzi, la differenza è proprio lì: sentirsi soli è un’esperienza dolorosa, scegliere di stare soli è un atto di amore verso se stessi. È decidere che, per un po’, il tempo che di solito regaliamo agli altri lo vogliamo investire dentro di noi.
La solitudine è un’occasione per fare spazio: leggere quel libro che ci guarda da settimane, cucinare un piatto che piace solo a noi, meditare, scrivere, ballare in salotto come se fossimo a un concerto privato. È il momento in cui possiamo riscoprire che la nostra compagnia, in fondo, non è poi così male.
E qui la chiave è leggera: smettiamo di prendere la solitudine come una condanna. Non serve chiudersi in una grotta o farsi venire la faccia tragica da romanzo russo: basta imparare a godere di quei piccoli momenti che diventano una boccata d’ossigeno.
In un mondo che ci vuole sempre connessi, disponibili, performanti, ritagliarsi tempo per sé è un atto rivoluzionario. È dire: “Ehi, adesso tocca a me. Non rispondo a nessuno, non faccio nulla per apparire, semplicemente sto.” Non è egoismo, è manutenzione interiore.
Steiner direbbe che la solitudine serve a riascoltare l’anima. Io, più semplicemente, direi che serve a non impazzire. Perché anche il cuore, come il telefono, ogni tanto va messo in modalità aereo.
E allora sì, impariamo a regalarci spazi di solitudine. Non per isolarci dal mondo, ma per tornare al mondo più leggeri, più pieni, più noi stessi. Perché la verità è questa: chi sa stare bene da solo, sa amare ancora meglio quando è con gli altri.

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