C’è una voce invisibile che ci accompagna ovunque: quando scegliamo un vestito, quando parliamo in pubblico, persino quando ridiamo troppo forte. È la voce del giudizio. Non tanto quello degli altri, ma quello che temiamo. Viviamo come se fossimo continuamente a un colloquio di lavoro senza fine: tesi, pronti a dare la risposta giusta, timorosi che qualcuno ci bocci.
Ma chi ci sta davvero esaminando? Spesso scopriamo che il tribunale più severo è dentro di noi. Siamo noi i primi giudici, i primi a fissare standard impossibili e a immaginare che il mondo intero stia prendendo appunti sui nostri errori. In realtà, la maggior parte delle persone è troppo occupata a preoccuparsi del proprio “esame” per notare davvero il nostro.
La paura del giudizio nasce dal desiderio di appartenere, di essere riconosciuti, di non perdere l’amore degli altri. È antica quanto l’umanità: nel villaggio di una volta, chi veniva escluso rischiava la sopravvivenza. Oggi non rischiamo più la vita, ma la mente reagisce ancora come se fosse questione di vita o di morte. Eppure, se ci pensiamo bene, il giudizio degli altri non è mai definitivo. Cambia con le mode, con le esperienze, persino con l’umore del giorno. È come un vestito che va e viene: a volte ci cade bene, altre volte è ridicolo. Per questo vale la pena riderci sopra. Perché prendere sul serio uno sguardo storto o un commento affrettato, quando domani quella stessa persona non ricorderà nemmeno cosa ci ha detto?
Ridere della paura del giudizio significa alleggerirsi. Vuol dire uscire dal tribunale interiore, buttare via la toga e dire: “Ok, forse oggi ho fatto una figuraccia. E allora? Domani sarà materiale per una buona storia da raccontare.”
Forse la vera libertà è proprio questa: continuare a danzare anche se qualcuno fischia dalla platea. Tanto, alla fine, chi fischia è spesso quello che non ha mai avuto il coraggio di salire sul palco.
“Chi vive per piacere a tutti, smette di piacere a sé stesso.”
Se smettessi di preoccuparti del giudizio, cosa faresti già domani?

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